Essere rifugiato in Italia

di Maurizio Mequio

(pubblicato du Dazebao L’informazione online)

Incontrare un rifugiato è, a detta di molti, una consuetudine che accomuna milioni di italiani, ma scoprirlo tale, nella sua intimità, ascoltando la sua storia, è un risveglio, dall’oppio del sentirsi padroni delle proprie città. Rifugiato politico non significa clandestino e clandestino non significa illegale.

Emigrante è colui che lascia la propria casa, ma molte volte significa qualcosa di più. E’ tentare di sopravvivere, di resistere all’inferno. Alla propria guerra. Ad un territorio che diviene un recinto dove bestie feroci aizzate nel nome della giustizia, quella con la g miniscola, si mordono senza pietà, fomentati forse da chi vede possibilità di lucro anche tra il sangue ed i cadaveri. Uomini e bambini, i famosi bambini soldato, quelli che invece di giocare alla playstation impugnano il fucile, quelli che usano le “nostre” armi, e dico nostre perchè le vendiamo, per difendere la propria nazione. Ma da chi? Da un’altra etnia, come raccontano i media occidentali? No dai loro concittadini, da altre fazioni che cercano a loro volta di sterminare i concittadini indegni, o i traditori, o i ribelli, o i filogovernativi, o chi sa cosa. Angolature di guerre civili. Sfumature, nulla di più. Perchè quel che è certo è che a qualcuno fa comodo l’insicurezza altrui. E quel qualcuno sa far fruttare i suoi aiuti -militari, umanitari, diplomatici-.

Favori che si trasformano in aperture, in flessibilità nelle decisioni interne, quelle che riguardano lo sfruttamento delle risorse. E così volano via i diamanti e si raschiano i paesaggi per recuperare Coltan. Da una parte occhi innocenti che assistono allo stupro delle loro madri, sorelle, compagne, e dall’altra parte del pianeta terra, nel cosiddetto Nord del mondo, degli uomini felici, perchè potranno finalmente disporre di migliori batterie per i loro cellulari, sempre più piccoli. Aveva ragione Massimo Lopez quando alle prese con uno spot pubblicitario recitava: “Una telefonata ti allunga la vita”. Sì, se le strutture socio-economiche telefoniche esistono nel tuo paese. E se la tua telefonata costa milioni di altre vite. Macabre considerazioni figlie del nostro cinismo. Come confrontarsi con un essere umano che ha passato notti nelle foreste in attesa di un momento di calma, sempre apparente, per camminare. Un cammino che si chiama coraggio, senza un minimo di speranza, se non la certezza di meritarsela tutta, questa vita. Né un piano definito, né uno spiraglio di certezza. Claustrofobia dell’emigrante, di quello non in fuga da se stesso, ma da uno scontro fratricida. Sentirsi accerchiati ed esser consapevoli che al confine si rischia di più che a digiuno in un nascondiglio, non sono motivi di conforto, ma diventano veri presenti compagni di viaggio. Pensieri-sanguisughe mentre il sole asciuga la pelle: il miraggio non può essere altro che quello dell’incontro. l’incontro di un’anima pura, che ti aiuti a fuggire, a scomparire.

Non solo terroristi, non solo delinquenti, non solo pericolosi individui, chi entra nel nostro Paese, o nella magnifica Europa, molte volte è una persona che ha sofferto ingiustamente, un essere umano al quale è stato impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche. Le guerre nel mondo sono molte di più di quelle che le televisioni raccontano, la più sanguinosa dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi è stata quella nell’area congolese, con più di 4 milioni di morti. E’ imbarazzante lo stare a sindacare da parte di certe istituzioni sulle effettive difficoltà di chi scappa dal proprio Paese. Eppure questo accade, accade ogni qual volta uno straniero fa la sua richiesta di asilo. Un anno di attesa, se tutto va per il meglio, per sapere se verrà accolta oppure no. Sì, perchè questo è il rischio, essere rimandati a casa. Ad avercela una casa… Ed è normale fare un collegamento con i Cpt, ovvero con i Purgatori d’Occidente. Luoghi nascosti, inesistenti, dove chi è riuscito a sopravvivere al proprio viaggio, viaggio fatto di bracciate e di perdite -si parte in molti si arriva in pochi- è chiuso nel tempo, in una pseudo cella d’attesa. Senza aver altro modo di raccontare la propria storia se non mostrando dei documenti. Carte che difficilmente hanno sopravvissuto alle guerre, alle persecuzioni, all’acqua, al caldo o alla fame. Eppure: niente documenti, niente Italia. I rifugiati in Italia nel 2003 erano 12.500, quando i rifugiati nel mondo erano 17.100.000 ed in Europa 5.400.000. Dalla Legge Bossi-Fini ad oggi la situazione non è assolutamente migliorata. L’Italia non ha ancora una legge specifica e completa sul diritto d’asilo. Secondo Amnesty International nonostante l’Italia aderisca alla Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati, resterebbe ancora oggi la Legge Martelli il testo base nel merito. Destano preoccupazione, per le Istituzioni internazionali, alcuni aspetti del comportamento italiano nei confronti dei richiedenti asilo: si parla del rispetto dei diritti umani nelle strutture di permanenza, ovvero nel paese ospitante. In particolar modo si è discusso della violazione del principio del non-refoulement (non respingimento) che vieta di rimpatriare o espellere forzatamente i richiedenti asilo verso Paesi in cui potrebbero essere a rischio di gravi abusi dei diritti umani. Basti pensare che solo tra il gennaio e l’ottobre del 2005 più di 1400 persone sono state trasferite in Libia. Paese che non poteva essere certamente ritenuto sicuro per il destino di questi profughi. Il 27 giugno scorso abbiamo raccolto la testimonianza di una rifugiata congolese a Roma -la video-intervista sarà pubblicata nei prossimi giorni su Dazebao-, il nostro è stato un semplice colloquio per iniziare a comprendere quale è la storia di un rifugiato in Italia.

La comunità congolese in Italia è poco consistente, ma incontra-ha incontrato delle difficoltà… La sensazione che abbiamo avuto è che queste difficoltà possano essere legate all’indifferenza delle Istituzioni italiane, e degli italiani, nei confronti di tutte le persone che chiedono asilo. Frutto di una banalizzazione eccessiva al solito discorso sul problema immigrazione, e di uno scellerato criterio della notiziabilità delle guerre e delle crisi mondiali. Quindi: se si combatte in prima persona si è in guerra, se si combatte vicino casa si è in guerra, se si combatte lontano non succede nulla. Se si combatte con i riflettori puntati si costruiscono strategie di demonizzazione del nemico, se si combatte senza riflettori puntati si sta dalla parte del vincitore -per trarne qualcosa-, nel caso dei potenti, e si negano comunque morti, sofferenze e storia a milioni di persone. Milioni di persone, che vengono tradotte nel linguaggio politico attuale e dall’opinione pubblica con l’inesatto ed etnocentrico termine di “clandestini”.

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